Lettera aperta a proposito della Casa dello Sciopero e della giornata del 28

Posted: Febbraio 2nd, 2011 | Author: | Filed under: prassi, theoria | Commenti disabilitati su Lettera aperta a proposito della Casa dello Sciopero e della giornata del 28

Ci rivolgiamo a coloro che hanno espresso un qualsiasi interesse per la Casa dello Sciopero e a chi ha provato a fare della giornata del 28 qualcosa di diverso rispetto a ciò che doveva essere.

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1. La giornata del 28

Il risentimento – questo odio per la vita – è la peggiore modalità che ci sia per esprimere dei giudizi politici. Come é già stato detto in tanti altri testi, non rimproveriamo niente a nessuno, non abbiamo nessuna lezione da impartire. Le attitudini e le prese di posizione delle varie «realtà politiche» che costituiscono il «movimento» milanese non saranno qui discusse. Non si tratta neanche di fare un’autocritica superficiale, usando ancora una volta parole d’ordine vuote, del tipo «bisogna organizzarsi meglio».

La giornata del 28 è iniziata a mezzanotte. Fin dalla prima ora, diverse disfunzioni hanno interessato l’ingranaggio metropolitano, annunciando l’inizio dello sciopero e il suo tentativo di estensione, immediato, all’insieme della produzione e della riproduzione dell’esistente.

Poi hanno avuto luogo vari blocchi durante la mattina, prima che partissero i vari spezzoni del corteo in direzione di Porta Venezia. Gli occupanti della Casa dello Sciopero si sono posizionati in mezzo al corteo. Ci sembrava che questo fosse il nostro posto, sia con gli studenti che con gli operai.

Nessuno di noi è studente, nella misura in cui lo studio non costituisce un aspetto della nostra vita tanto importante da poterci addirittura definire. Eppure certi di noi seguono le lezioni a scuola o in università.

Nessuno di noi è operaio, nella misura in cui non è un posto di lavoro o un mestiere particolare a permetterci di rivendicarci tali. Spesso siamo, come quasi tutta la nostra generazione, disoccupati se non occupati in attività assurde, che non producono nulla di bello o di utile secondo alcun criterio.

Ciò che è certo, è che siamo tutti messi al lavoro, mobilitati, durante o al di fuori dell’«orario di lavoro». Se da una lato abbiamo l’impressione di non servire a niente, di essere un parte superflua dell’umanità, integralmente rimpiazzabile ed eventualmente sacrificabile, dall’altro ci rendiamo conto che la metropoli non potrebbe continuare ad andare avanti senza questi esseri umani, che sembrano servirle da carburante.

Che siano le nostre braccia, occupate a far sparire la merda prodotta da chi è troppo ricco per abbassarsi e pulirsela da solo; che sia la nostra lingua, occupata a tartassare i nostri simili al telefono per forzarli a comprare roba che li renderà ancora più estranei a loro stessi; o che sia semplicemente il nostro tempo, perso in un lavoro di cui la finalità ci sfugge completamente; non importa ciò che di noi interessa al nostro padrone, potrebbe ugualmente trovarlo in qualsiasi altra persona, e finirà un giorno o l’altro per trovarlo in un macchinario.

Viene da chiedersi se il lavoro serva innanzitutto a produrre qualcosa, o se ciò che si presenta come produzione di ricchezza abbia come prima finalità il mantenerci al lavoro, così da non avere né tempo né energia per fare qualcos’altro. Come se questo qualcos’altro facesse tremare la società. Lo stesso vale per la scuola, dove abbiamo più l’impressione di essere tenuti sott’occhio tutto il giorno che di imparare qualcosa.

Eccoci dunque al corteo. Intorno a noi sventolano le bandiere, adornate con falci, martelli, ingranaggi, addobbate con sigle di cui abbiamo dimenticato il significato. Noi non ce le abbiamo. Che cazzo potremmo scriverci sopra, noi che non siamo nessuno? Gli spezzoni scazzano per sapere chi sarà davanti o dietro questo o quello striscione. A noi non ce ne frega niente, potremmo metterci da qualsiasi parte, noi che siamo da nessuna parte.

Finalmente inizia il corteo. Non capiamo bene cosa ci stia a fare qui la CGIL. Un po’ come se il papa si facesse vedere a un raduno in favore dell’aborto.

Arrivati in Piazza del Duomo, la FIOM fa il suo comizio. Una parte dei manifestanti vuole continuare e si muove verso la sede dell’Assolombarda. Uno striscione annuncia il «conflitto», gli interventi al microfono parlano di «contestare». Tuttavia sappiamo, istintivamente, che il divario tra l’uso delle parole e il loro significato originale è estensibile a volontà. Eppure ci viene da sperare che la frustrazione accumulata in tutti questi anni, in cui la classe rappresentata dall’edificio dell’Assolombarda ce l’ha messo nel culo, lì si trasformi in rabbia, e che le parole lascino spazio agli atti. Ma la speranza è una passione triste.

Il 28 gennaio, davanti all’Assolombarda, non è successo niente. Niente di nuovo, niente di speciale, quindi niente da commentare. Così come non c’è nessuna responsabilità da attribuire a qualcuno. Ciò che bisogna fare, invece, è ricominciare daccapo a pensare come può di nuovo accadere qualcosa nelle strade di Milano. Tanti tra di noi, i più giovani, non hanno mai conosciuto lo scontro, tranne che su YouTube.

Durante il movimento studentesco, molti hanno provato i limiti del blocco itinerante, sempre in fuga dalla polizia come unica tattica, e la necessità di tenere la strada, fosse anche temporaneamente. Il 14 dicembre a Roma, la Zona Rossa ha indicato il punto in cui bisognava tenere. La sua materialità ha permesso di uscire dal labirinto del non-senso metropolitano, all’interno del quale ogni punto è uguale a quello che sta di fianco. Ha fornito un bersaglio. Ha ricordato a tutti che la metropoli non si esaurisce in un insieme di flussi. La metropoli è flussi e controllo. Merce e polizia. Elezioni libere e l’esercito che presidia le piazze. Ha ridato a questa generazione YouTube un senso della realtà; come Genova, molto più tragicamente, l’aveva ridata alla generazione precedente.

Era un’illusione credere che l’Assolombarda avrebbe potuto fungere, in scala molto ridotta, da Zona Rossa di Milano, anche se ne aveva l’aspetto, con le camionette che bloccavano la strada. Questo è stato confermato ieri con amarezza.

Il fatto è che nessuno aveva puntato tanto su questo aspetto della giornata. Partecipare alla giornata di sciopero cosiddetto generale aveva senso per noi perché avevamo fatto una scommessa differente. Abbiamo provato, tramite le nostre azioni e i nostri scritti, di seminare il dubbio sull’opportunità dello sciopero generale come mezzo d’azione. Abbiamo provato a sovvertire il concetto di sciopero, perché ci teniamo, perché non rinunciamo alla potenza che hanno avuto tanti scioperi nella storia, potenza che è solo sospesa dal corso normale delle cose e che dobbiamo attuare.

Crediamo che questa potenza possa emergere di nuovo, come crediamo nella potenza di ciò che non ha volto né identità, di questa parte irriducibile in noi. Abbiamo fede nella potenza di questo proletariato che non è una classe della società civile, di questa plebe che non può essere pacificata, potenza che nessun partito, nessun sindacato, nessuna FIOM, per quanto radicale possa essere, potrà mai rappresentare perché è essenzialmente, per definizione, irrappresentabile.

E’ questa potenza che cerchiamo, sotto qualsiasi forma, fosse anche frammentata, tra le macerie della società. Cerchiamo complicità, persone da sole o che già si organizzano, e che non vogliono né essere rappresentate né rappresentare nessuno. E quando queste complicità si legano, proviamo a consolidarle, a farne più di una potenza di rifiuto: una potenza rivoluzionaria. Usiamo a volte grandi parole, come questa. Non rinunciamo a queste parole, alla loro potenza, anche se non ignoriamo la difficoltà del nostro compito.

Dopo il corteo, la stanchezza ha vinto sulla voglia di proseguire. Avremmo voluto estendere lo sciopero, nel tempo e nelle pratiche, al di là della sfilata, ma le forze erano quelle che erano, e a quel punto ci siamo fermati. Un’assemblea si è tenuta alla Casa dello Sciopero, e numerosi punti di questa lettera ne sono direttamente ispirati.

2. La Casa dello Sciopero

Non ci dilungheremo su tutte le ragioni che ci hanno fatto tentare la scommessa che è stata la Casa dello Sciopero. Sono già state discusse ampiamente durante le assemblee di preparazione, durante l’occupazione stessa e nei testi che hanno circolato. Si tratta ora di valutare se le ipotesi erano giuste, come sono state verificate, insomma di vedere se valeva la pena di tentare un’occupazione di questo tipo.

Da qualche tempo a Milano si porta avanti una riflessione e delle pratiche, su cosa potrebbe essere un’occupazione liberata dai limiti in cui si è infognata la figura del «centro sociale» o dello «squat». Questa riflessione entra in risonanza con simili esperienze in altre città d’Italia e d’Europa.

Una prima esigenza è quella di ripensare come lanciare l’occupazione. Con la Casa dello Sciopero volevamo continuare a far vivere questa idea: si può occupare, pubblicamente, a Milano, in centro, senza avere nessuna forma di comunicazione con gli sbirri, e questo anche con delle forze limitate. Questo punto ci pare molto importante e speriamo che faccia scuola e si espanda tra le nuove occupazioni. Non bisogna sbagliarsi su cos’è la polizia e su cosa implica il fatto di intrattenere un dialogo, fosse anche in modo antagonista, con essa. Non abbiamo niente da dire agli sbirri, neanche gli insulti. Parlare con loro, in qualsiasi modo, vuol dire accettare che esista un piano comune tra noi e loro, anche minimale. Pensiamo che sia stato dimostrato che l’argomento « strategico » – quello che consiste nel dire che parlare agli sbirri può valere la pena se ciò ci facilita l’occupazione, insomma che il fine giustifica i mezzi – è sempre una grossolana montatura.

Il carattere «pubblico» di questa occupazione ha dato luogo a tante discussioni. La Casa dello Sciopero è stata innanzitutto pensata durante le «Assemblee metropolitane» del mercoledì pomeriggio, nate durante il movimento studentesco. Si sono aggiunte anche persone che non avevano partecipato a queste assemblee. Queste diverse singolarità avevano punti di vista differenti sulla questione della pubblicità. Ciò che li univa era l’ipotesi secondo la quale occupare avrebbe potuto servire a rendere visibile, col nostro proprio modo, l’esistenza di altri pensieri e altre pratiche attorno alla nozione di sciopero, per trovare complicità al di fuori dei circoli politici già organizzati. Sulle modalità di questa visibilità ci sono stati disaccordi e anche punti di vista opposti. La Casa dello Sciopero non è stata, non voleva essere, omogenea. Era piena di contraddizioni, come ogni sperimentazione.

Si deve ammettere comunque che questa ipotesi non è stata conclusiva. La Casa dello Sciopero non ha permesso tanti nuovi incontri. I volti che l’hanno attraversa si erano già incrociati, senza essersi presi il tempo di conoscersi, in altre circostanze, tra cui il movimento studentesco dell’autunno scorso. L’occupazione è stata un momento di consolidazione di incontri che, essenzialmente, avevano già avuto luogo prima. Vista ora da più lontano, l’idea che la Casa dello Sciopero avrebbe potuto attrarre, in pochi giorni, gente che di solito non frequenta posti occupati ci sembra un po’ fantasiosa, se non addirittura ridicola. Ne ricaviamo dunque una lezione: l’importante non è la visibilità in sé ma la presenza nel movimento reale. Solo su questo piano possono nascere amicizie politiche. Il movimento reale si trova ovunque la logica della rappresentazione fallisce e non riesce ad imporre la sua luce accecante che oscura ogni cosa.

Quando parliamo di consolidazione, invece, pensiamo a tutto ciò che questa esperienza d’azione e poi di vita comune, anche solo per pochi giorni, ha reso possibile. A conferma ancora una volta che bisogna moltiplicare questi momenti in cui la vita quotidiana e la politica non sono distinguibili, piuttosto che parlare astrattamente di « rivoluzione della vita quotidiana ». Il semplice fatto di vivere insieme permette a delle singolarità di accedere a una potenza politica a cui mai potrebbero giungere, nemmeno tramite un attivismo forsennato, finché l’abitare e l’agire politico saranno pensati separatamente. Per le creature metropolitane che siamo, abituati all’isolamento, vivere insieme è difficile e ci pare a volte impossibile, perché non siamo stati fatti cosi. Bisogna lottare su questo terreno, come su tutti gli altri. Riconquistare la nostra capacità di legarci ai nostri simili. Questa è l’unica vera autonomia.

Su questo punto, occorre notare le difficoltà che hanno toccato le giornate di occupazione. Quasi tutto ciò che rende i centri sociali deprimenti si è presentato nella Casa dello Sciopero. Far sparire questa tendenza non è un problema da nulla. Ci sono stati quelli che palesemente non avevano capito cos’era questo luogo e che pensavano di poterci trovare un posto dove fare festa e drogarsi tranquillamente. Ma non ci spenderemo una riga oltre. Ci sono stati quelli che hanno visto solo l’aspetto strettamente militante, e che hanno frequentato solo le assemblee. Ci sono pure state numerose divergenze su cosa dovesse essere prioritario tra le attività del luogo, rivelando ancora una forte eterogeneità, che a volte si è ritorta in una mancanza totale di coerenza. Ne tiriamo questa conclusione: occorre trovare, a Milano, un metodo affinché le occupazioni non attirino più chi viene solo per consumare il posto, cercando divertimento o radicalità di facciata, ma che invece attirino sempre di più quelli che vogliono organizzarsi per dare vita alle lotte. Trovare l’angolo giusto di apertura, equidistante dai centri sociali identitari, chiusi sulla loro ideologia, come dai luoghi distrutti da un’apertura a tutto, compreso ciò che rovina ogni potenzialità rivoluzionaria.

Uno degli aspetti più interessanti dell’esperienza della Casa dello Sciopero è stata senza dubbio la circolazione delle idee in seno ad essa. Idee nel più pratico dei sensi: conoscenze tecniche, sopralluoghi di possibili obiettivi, cartografie sovversive, piani d’azione, ecc…. Anche se sono state realizzate solo in piccola parte, queste suggestioni rimangono in noi. In questo senso si può dire che ci costituiamo come potenza.

Ancora una volta, gli errori che abbiamo commesso o le delusioni che abbiamo provato non intaccano il nostro morale e il nostro entusiasmo per la costruzione di una forza rivoluzionaria autonoma a Milano. Costruire questa forza non è solo ciò che c’è di più necessario in quest’epoca, ma anche ciò che c’è di più gioioso da fare. Proviamo a giocare le nostre carte, sbagliando, riuscendo, ma in ogni caso, ci divertiamo un sacco. Sotto la coltre metropolitana, la città ci appare ogni giorno più bella.

Milano, il 29 gennaio 2011


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