In questa pagina pubblichiamo dei contributi che provano ad indagare da differenti punti di vista il concetto di plebe come uno tra i paradigmi attraverso cui leggere la potenza delle lotte contemporanee.

§ Plebe e Autonomia

“Non c’è assolutamente realtà sociologica nella “plebe”. Ma c’è comunque sempre qualcosa, nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli individui stessi che sfugge in certo modo alle relazioni di potere; qualcosa che non è affatto la materia prima più o meno docile o resistente, ma il movimento centrifugo, l’energia di segno opposto, l’elemento sfuggente. Non esiste “la” plebe, c’è “della” plebe. C’è nei corpi e nelle anime, negli individui, nel proletariato e nella borghesia, (…) Questa parte di plebe non è tanto l’esterno rispetto alle relazioni di potere quanto il loro limite, il loro inverso, il loro contraccolpo; è ciò che risponde ad ogni avanzata del potere attraverso un movimento per svincolarsene; ed è quindi ciò che motiva ogni nuovo sviluppo delle reti di potere “

Foucault

La citazione sulla plebe proviene da un’intervista di Foucault rilasciata nel 1977. In queste righe Foucault dice che la plebe non è mai una realtà sociologica come la classe operaia o la borghesia, ma una potenzialità che si annida in tutte le classi. La plebe attraversa le stratificazioni sociali o le unità individuali senza localizzarsi esattamente in essi. Essa è dunque distribuita in modo irregolare, facendo insorgere talvolta gruppi o individui in modo definitivo, accendendo improvvisamente certi punti del corpo, certi momenti della vita, certi tipi di comportamento. La plebe, che si cela in ciascuno di noi, traccia nel nostro corpo e nella nostra anima regioni irriducibili alla presa del potere. Lungi dall’essere un soggetto, la plebe è al contrario una critica che si sottrae o tende di sottrarsi all’essere eccessivamente governati. La plebe è una forza anonima che manda in frantumi il sistema di controllo perpetuo che ci obbliga a una regola di comportamento. Il divenire plebe fa saltare la regola del disciplinamento per cui ad ogni soggetto, a ogni identità corrisponde un comportamento standard.

Poiché il marxismo non ha potuto funzionare se non come espressione di un partito politico fortemente centralizzato, ne consegue che tutta una serie di problemi, come la follia, la sessualità, la delinquenza, che sono emersi nei movimenti delle minoranze dei trascorsi anni ’60 e ’70, sono stati tenuti fuori dall’orizzonte politico. I partiti della sinistra storica hanno avuto la tendenza a neutralizzare questi movimenti, in quanto vi era coinvolto ciò che è classicamente definito Lumpen-proletariat. Per Foucault, evidentemente, non si è trattato di attribuire un valore assoluto a questi movimenti, nondimeno però egli ha creduto che fosse possibile, sul piano strategico, logico e politico, recuperare le tematiche e le nuove lotte che prendevano forma in settori sociali tradizionalmente considerati marginali dai partiti comunisti.

Nel 1977, l’anno in cui Foucault lavorava alacremente ad una critica della razionalità governamentale, in Italia ci fu l’esplosione dell’autonomia diffusa. In realtà, non sarebbe errato affermare che il ’77 italiano fu l’anno della plebe. Se nelle diagnosi teoriche di molti militanti c’è stata la tendenza a scorgere nella plebe l’emergere del nuovo soggetto rivoluzionario, nel pensiero di Foucault essa si configura come tutt’altra cosa da un soggetto. Insomma plebe è sinonimo di pratiche di desogettivazione.

«Autonomia»: questa formula può voler dire molte cose, ma fra le altre, il proliferare diffuso, molecolare, di un vasto movimento di sottrazione di corpo e anima dalle strutture dell’identità, dell’assoggettamento, dello sfruttamento, e del loro aggregarsi e disaggregarsi continuo in un piano di consistenza comune. «Contrariamente a ciò che predicherà la stupidaggine sociologica, sempre avida di riduzioni da mettere a profitto, il fatto qui degno di nota non è l’affermazione di giovani, donne, disoccupati, omosessuali in quanto “nuovi soggetti” politici, sociali o produttivi, ma al contrario la loro desogettivazione violenta, pratica, in atto, il rifiuto e il tradimento del ruolo che spetta loro in quanto soggetti. Ciò che i diversi divenire dell’autonomia hanno in comune è il fatto di rivendicare un movimento di separazione rispetto alla società, rispetto alla totalità» (Tiqqun, La comunità terribile, DeriveApprodi, Roma 2003, p. 109). I movimenti di autonomia, mettendo in pratica un’insurrezione dei comportamenti, nei termini di ciò che Foucault chiamava «disindividualizzazione», hanno rivelato «la possibilità di una forma-di-vita esterna alla macchina governamentale e alle sue forme di vita serializzate». Evidentemente tutto ciò implica che non si possa parlare di una rivoluzione bensì di una molteplicità di rivoluzioni, le quali non mirano alla presa de Potere ma alla ridefinizione dal basso di tutte le relazioni di potere disseminate a livello molecolare. Insomma, si è trattato di movimenti abissalmente distanti dall’idea di prendere il potere, per potere finalmente gestire l’economia, il diritto e le istituzioni della società e dello Stato. Una molteplicità eterogenea, che sapeva convivere e cooperare, stava costruendo un contro-mondo, senza riproporre vecchi progetti di trasformazione della società. Le molteplici autonomie degli anni 60 e 70 stavano riuscendo a battere il capitalismo in quanto avevano creato nuove aggregazione umane.

L’intuizione sull’esperienza dell’autonomia italiana formulata da Tiqqun è la seguente: «che non solo non c’è più soggetto rivoluzionario, ma che è lo stesso non-soggetto rivoluzionario a essere diventato rivoluzionario, ovvero operativo contro l’Impero. Istillando nella macchina capitalistica questa specie di conflittualità permanente, quotidiana, endemica, l’autonomia porta a termine il processo della sua ingovernabilità. In modo significativo, il riflesso dell’Impero di fronte a questo nemico qualunque sarà sempre quello di rappresentarlo come un’organizzazione strutturata, unitaria, come soggetto e, se possibile, renderla tale» (Ivi, p. 130).

Nell’Italia degli anni 70, l’autonomia invece di pensare in termini di scontro da soggetto a soggetto con lo Stato, come hanno fatto le organizzazioni combattenti tipo br, ha praticato la strategia della “guerriglia diffusa”. «Le azioni […] vengono firmate anonimamente o da nomi fittizi, ogni volta diversi, comunque non assegnabili, solubili nel mare dell’autonomia. Sono tante unghiate uscite dalla penombra a formare un’offensiva più densa e preoccupante delle diverse campagne di propaganda armata delle organizzazioni combattenti. Ogni azione si firma da sé, si autorivendica nel proprio come, nel significato specifico assunto nella situazione, consentendo una rapida distinzione tra l’attentato di estrema destra, il massacro di Stato e la via di fuga sovversiva» (Ibidem).

La rivoluzione, come dice Tiqqun, fu diffusa e molecolare: la controrivoluzione non fu da meno. Per installare il nuovo modo di produzione post-fordista, la normalizzazione dentro e fuori dalla fabbrica fu gestita, iscrivendo sotto la rubrica “terrorismo” tutte le varie componenti dell’autonomia. Per sradicare la diserzione, l’assenteismo, l’ingovernabilità c’era assoluto bisogno di far ricorso all’emergenza terrorismo per giocare la carta della repressione. In tempo breve le città furono presidiate dai cingolati con il divieto assoluto di manifestare. Intanto, non va dimenticato che proprio nel 1977 vengono istituite le carceri speciali, mentre le br alzano progressivamente il livello dello scontro. «Lo Stato con le autoblindo per le strade e le br con il sequestro Moro mandarono al movimento un messaggio netto, inequivocabile e convergente, come le due pinze della tenaglia: questo è il livello, o vi adeguate o tornate a casa. La gran parte tornò a casa, vale a dire all’eroina, al riflusso privato e disperato, al silenzio e alla passività. […] Il vecchio aveva ripreso la testa. […] La barra tornò a consolidarsi in direzione delle consolidate culture del 900, con l’avvitamento sul piano dello scontro prettamente militare» (Sergio Segio, Una vita in prima linea, Rizzoli, Roma 2006, p. 108).

Contemporaneamente fa la sua apparizione furtiva il nuovo dispositivo di gestione e governo degli uomini. «Una serata dell’ottobre del 1977, mentre i fuochi delle rivolte si stavano spegnendo, Silvio Berlusconi incontra Mike Bongiorno, l’uomo che ha accompagnato, con la sua presenza sullo schermo, tutta la storia della televisione italiana. Cenarono insieme in un ristorante milanese, e dalle loro intelligenze semplici nacque una macchina di linguaggio straordinaria, capace di penetrazione biopolitica nel cervello degli italiani. […] Alla liberalizzazione collettiva della comunicazione, di cui il movimento studentesco e Radio Alice erano stati portatori, rispose la privatizzazione e la commercializzazione del sistema comunicativo. Era l’inizio di una trasformazione di cui oggi, trent’anni dopo, possiamo misurare l’intera portata» (Bifo, Come si cura il nazi. Iperliberalismo e ossessioni identitarie, ombre corte, Verona 2009, pp. 98-99).

Oggi si sostiene che l’Italia è un paese a rischio di fascismo. « Ci Si sgola a denunciare la presa del potere da parte di una specie di dittatore (un uomo: Berlusconi), quando si ha invece a che fare con la presa del sociale da parte di una forma-di-vita: il manager. Nulla di meno personale di Berlusconi, e al tempo stesso niente di altrettanto contagioso» (Tiqqun, Teoria del Bloom, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 134)

In una prospettiva più generale, si potrebbe collegare l’attuale patologia delle società occidentali a una deriva manageriale della democrazia. In altri termini, la democrazia si sarebbe trasformata, come sostiene Agamben, in una oikonomia, cioè in un dispositivo di mera gestione razionale degli uomini e delle cose.

La nostra posizione, evidentemente, non consiste in una diversa interpretazione della democrazia, ma in un’enunciazione del tipo: non mi ritengo un cittadino e non nutro nessun sentimento di lealtà nei confronti della democrazia biopolitica. Ho smesso di essere programmabile. Ho smesso di difendere i dispositivi del mio asservimento. I nuovi dispositivi della democrazia governamentale, vale a dire lo stato di eccezione, il campo, la biometria, la videosorveglianza, le leggi anti-terrorismo, la detenzione preventiva, i pacchetti sicurezza, sono l’anticamera di una nuova forma di fascismo. Questi dispositivi non devono essere semplicemente denunciati, in quanto anticostituzionali, ma attivamente combattuti, anche a costo di qualche illegalità. Abbiamo capito che non vale la pena reclamare più diritti, più democrazia, perché ciò comporta inevitabilmente un più di governo e meno libertà.

§ MANIFESTO DELLA PLEBE §

Dall’inizio dei tempi, dalla rivolta di spartaco del 73 a.c. e probabilmente anche da prima ,  il vero e unico soggetto rivoluzionario , se mai ne è esistito uno ,il protagonista  di tutte le guerre e di tutte le rivolte e di tutte le rivoluzioni è sempre stata la plebe
Non i proletari, definizione ottocentesca, non i precari, surogato post-moderno della definizione precedente, ne tantomeno il “meticciato metropolitano moltitudinario” squallido tentativo negriano di inventare nuovi termini per parlare di vecchi concetti
La plebe è contemporaneamente il soggetto centrale  della storia  e  l’oggetto dell’azione del potere. Governare vuol dire sempre governare contro la plebe
ll vero terrore dei governanti,di tutti i governanti, è sempre stato quello che la plebe li svegliasse in piena  notte nelle loro fiabesche residenze, sgozzasse i loro guardiani e li appendesse malamente ad un qualche lampione.  Anche oggi, nella semi-pacificata Europa, possiamo intravedere quello stesso terrore comune a tutti i governanti, celato dietro  smaglianti sorrisi. Temono, e ne hanno ragione, che un giorno all’improvviso la plebe li spodesti e li impicchi
La plebe non vota, essa ingiuria e bestemmia sottovoce chi sta al potere, e quando ne è in grado li destituisce. In effetti, la più lampante  incompatibilità tra la politica di palazzo e la plebe è proprio questa: la prima ha smanie costituenti, la seconda produce moti destituenti
La plebe è per sua natura tumultuosa. La sua politica si chiama sommossa
La plebe non va mai al lavoro volentieri, se dipendesse da lei starebbe sempre in sciopero
La plebe è anche il popolo ,il volgo; ma non è per nulla la nazione, ne tantomeno i cittadini e nemmanco  i poveri di per loro. Infatti essi divengono plebe solo quando si pongono in termini offensivi verso l’autorità costituita. In questo senso la plebe può dirsi partigiana
Il nemico della plebe sono i patrizi, cioè quelli che governano,quelli che godono dei privilegi e determinano la miseria. Anche i pretoriani sono nemici della plebe, perche sono dei cani senza onore e sono al soldo dei patrizi. Una congiura avviene quando i pretoriani si fanno plebei e scannano i governanti a tradimento. Ciò  è molto raro quasi impossibile. È molto più facile che la plebe travolga i pretoriani a guardia dei palazzi per poi saccheggiarli e darli in pasto alle fiamme. Questa è una sommossa, una sommossa riuscita
La plebe non è democratica, anzi. La plebe è tendenzialmente comunista, con una forte deriva anarcoide. Essa mette in comune i suoi bisogni, le sue necessità  ,le sue risorse e la sua intelligenza . In questo la plebe è diversa dal popolino, che invece è intimamente egoista e abituato a pensare al proprio piccolo interesse a discapito di chi gli sta accanto.(valore borghese che il popolino ha interiorizzato quando la metropoli ha spazzato via ciò che di comunista rimaneva tra le sue maglie come le fabbriche o i quartieri popolari)
Se è vero che la plebe non vive ma sopravvive, è altrettanto vero che ciò che la plebe desidera più di ogni altra cosa è la bella vita, o meglio il pieno godimento della vita
Quando la plebe si incazza scoppia la guerra civile, e quando scoppia la guerra civile sono cazzi amari per tutti
La plebe ha una visione in prospettiva del mondo che vorrebbe. Ciò nonostante il riferimento spazio-temporale della plebe è qui ed ora. A tutti gli effetti la plebe vuole tutto e subito
La plebe ha sempre pagato la crisi, anche in tempi in cui la crisi non c’è; figuriamoci quando  c’è!
La plebe è spontaneista , ma non per questo non ama essere organizzata. Si può dire che i moti spontanei della plebe, le sue esplosioni di rabbia, trovano ragione d’essere proprio nella sua organizzazione. Altrimenti detto, la plebe organizza la spontaneità e spontaneamente si organizza
Quando qualcuno organizza la plebe verso la sommossa, può essere definito tribuno della plebe.  Quando qualcuno cerca di dissuadere la plebe dal rivoltarsi, quando fa appelli alla calma e dice che  non è il momento  e che la sommossa è controproducente è un tribuno corrotto o in cattiva fede, è un politicante e come tale è nemico della plebe
La plebe non parla con la polizia, al massimo la insulta
“C’è un po’ di plebe in tutte classi” F.Hegel
Il luogo della plebe è la strada
L a rivolta romana del 14 dicembre è stata un opera della plebe. Le sommosse in Francia, in Grecia  a Londra sono rivolte della plebe. In Algeria e in Tunisia e da qualsiasi parte del mondo, quelli che assaltano e saccheggiano i negozi  e si scontrano con la polizia sono i ragazzi della plebe. In un picchetto fuori dai cancelli di una fabbrica,tra i sacchiapelo di una facoltà occupata, sul tetto di uno squat sotto assedio, dietro il blindo di un carcere o un cie in rivolta troviamo la plebe nelle sue più artistiche espressioni.
La plebe è ovunque, sempre, da sempre
La plebe siamo noi. La plebe siete voi
Potere alla plebe
W la plebe

§ La strada e la piazza

Potremmo provare ad assumere questo paradigma: nelle relazioni di potere c’è sempre qualcosa che eccede le relazioni stesse. Questa eccedenza è ciò che chiamiamo: plebe. Esiste poi un’altra eccedenza, un’altra perturbazione rispetto alle relazioni ed è ciò che comunemente viene chiamato diritto, e questo NON è un altro problema…
Non esiste una realtà sociologica della plebe e non ci interessa fare una teoria della soggettività plebea. Non è una classe sociale e non è un’esaltazione romantica. Ciò che ci interessa è che C’E’ della plebe in ogni relazione di potere.
La plebe, in quanto non intesse le sue pratiche, le sue sottrazioni, la sua eccedenza, le sue de-soggettivazioni sul piano della dialettica potere/contro-potere si sottrae al piano del diritto e quindi alla definizione classica della cittadinanza e del popolo. La plebe non è un soggetto di diritto.
De-soggettivando se stessa desoggetiva chiunque si trovi di fronte alla sua danza. O perlomeno lo obbliga a togliersi la maschera della democrazia.
Impero, stato, chiesa, movimento, partito, giudici, polizia…chiunque si trovi sul suo cammino è costretto a ricorrere allo stato d’eccezione. Il fatto che da quasi un secolo lo stato d’eccezione sia diventato la regola può rendere l’idea di quanto la plebe sia reale. Dove non arrivano i dispositivi arrivano i pretoriani. Dove i dispositivi si inceppano si svela il trono vuoto. Il sovrano è incapace di prendere alcuna decisione.
Ora però viene il problema. Un paradigma è una cosa complicata. Non si sa bene come usarlo e sembra che sia solo indizio di una certa inesauribilità. Vengono in mente solo esempi.
E il paradigma scelto rimanda principalmente a dinamiche molto pericolose.
Plebe, popolo, stato…movimento, popolo, stato…staadt, bewewung, volk…que mal la dialectique!
E allora proviamo ad aggiungere qualcosa.
La plebe non lavora. E non solo perchè oziosa. Ma semplicemente perchè è troppo impegnata per farlo. Sottrae la prassi al lavoro.
La plebe è in sciopero umano. Preferisce di no e NON sceglie quasi mai l’attacco frontale.
La plebe parla una lingua minore. Rovescia i linguaggi e lascia scorrere le parole.
La plebe ha i suoi spazi e i suoi tempi, il suo calendario e i suoi orologi.
La plebe condivide i saperi-poteri.
La plebe brucia il denaro.
La plebe vive in STRADA non in piazza.
La plebe preferisce mettere in circolo la sua potenza che esercitare un potere.
La plebe ha le sue regole e sa odiare.
La plebe è invisibile.
Il paradigma non è solo ciò che permette di stilare l’elenco. È anche ciò che ci permette di riconoscere l’eccedenza. Se assumiamo il fatto della guerra civile non possiamo non assumere che in questo particolare tipo di guerra, detta a bassa intensità, la plebe è quella tendenza che riesce da sola, e spesso solo grazie a un piccolo spostamento, a far saltare l’intero rapporto.
Una occupazione che apre alla città, che riesce a rompere i clichè, che si pone su un nuovo orizzonte.
Una relazione che smonta i ruoli, che distrugge le identità, che si apre a nuove pratiche.
Un rapporto con se stessi, una certa dose di spiritualità, un certo rapporto con il corpo.
Una nuova forma di condivisione, una nuova forma di amicizia, un nuovo modo di stare in strada.
Un’inchiesta, una mappa, un blocco.
La plebe si muove su ogni piano. Intimo, personale, politico, di coppia, di amicizia.
Non esiste relazione che non possa generare la sua stessa eccedenza. La sua parte di plebe.
Dobbiamo identificare queste tendenze, alimentarle, sperimentarle, dobbiamo ricordare quelle passate, quelle dimenticate, quelle cancellate.
Lo sciopero umano è il divenire plebeo delle singolarità.
Siamo pieni di bravi cittadini. Un cittadino per ogni sbirro.
E dove vanno i bravi cittadini?
In piazza.
E cosa c’è in piazza?
Il mercato.
E tra la strada e la piazza c’è una bella differenza…

§ I tamburi di Piazza del Popolo

Uno dei modi con i quali si sta cercando da più parti di giustificare o razionalizzare quello che è avvenuto a Roma il 14 dicembre è quello che consiste nel dire che in fondo è accaduto solo quello che è già accaduto in Francia, in Grecia, in Spagna e in Inghilterra. Oppure, il ché è quasi lo stesso, che è un effetto della crisi o della «assenza di futuro», qualcosa cioè di essenzialmente reattivo. In fin dei conti definire la rivolta come pura “esplosione di rabbia” vuol dire relegarla nel purgatorio delle passioni irrazionali. È un modo tra i tanti di relativizzare l’evento, un modo buono per tutti i gusti: sia per gli “antagonisti” ossessionati da problemi di identità e che fino all’altro ieri dovevano accontentarsi di un po’ di riotporn su youtube, sia per i “gestionali” i quali, dopo lo sbigottimento, per rimettere le cose a posto ora possono dire con patetico understanding: «Abbiamo respirato un clima più europeo e meno provinciale del solito» (ma il tizio avrà detto questa stupidaggine per apparire simpatico agli erasmini, agli intellettuali cosmopoliti o semplicemente per diluire la singolarità della rivolta romana nella notte dove tutte le vacche sono nere?). Contenti loro.

Certo, sarebbe da stupidi non vedere che in Europa negli ultimi quattro anni si è fatta avanti ed è venuta facendosi sempre più comune una pratica del conflitto anticapitalista che fa rimbalzare enormi sommosse da un paese all’altro. Anzi, ad avere l’occhio lungo si poteva prevederne la tendenza già da tre o quattro anni almeno. Il testo maggiormente premonitore in questo senso, L’insurrection qui vient, è del 2007. Ci sono stati diversi compagni e compagne che hanno provato per tempo a intercettare la tendenza e a socializzarla, peccato che nelle nostre provincie venissero trattati peggio di come Saviano oggi tratta i rivoltosi di Roma. In ogni caso, per quanto ci riguarda, crediamo ancora nella verità del vecchio motto “prima le lotte, poi il capitale” e che la resistenza venga prima del potere. Crediamo ancora che autonomia significhi capacità di determinare una propria temporalità e quindi saper prendere e tenere l’iniziativa e non subire sempre e comunque quella del governo (o della bassa cucina politica) per poi reagire. E non ci crediamo astrattamente, per noi è parte di una prassi. Piazza del Popolo e tutto quello che è avvenuto attorno ha significato finalmente imporre il piano dell’iniziativa autonoma a tutti. Al governo in divisa blu in primo luogo, poi alla politica e quindi a quei poveracci che si sono illusi di poter ancora e per sempre condurre le danze con uno pseudo-assalto al Palazzo in perfetto stile “reality show”, a uso e consumo della miriade di fotografi e cameramen che già conoscevano l’angolo di strada dove assieparsi. Il nodo che la rivolta romana ha sciolto con violenza sta proprio in questa affermazione: all’esercizio comune di un rifiuto corrisponde la crescita dell’autonomia e che la verità della lotta non poteva consistere né nella sua messinscena né nella finta assemblea democratica che avrebbe dovuto chiudere la manifestazione ma nella frattura profonda con ogni continuità e quindi anche con l’edulcorata grammatica della protesta che fino ad oggi ha potuto egemonizzare i movimenti in Italia. E finalmente si è vista in azione un bel po’ di «rude razza pagana»!

Dire che quello che è accaduto è spiegabile, meccanicisticamente, come fosse una fatale prosecuzione di ciò che è già avvenuto altrove non spiega granché, non spiega affatto come la rivolta si è fatta spazio qui ed ora, in Italia, nel dicembre 2010. La dimensione globale della “crisi”, d’altronde, mostra come funziona il capitale molto più che la fisica delle lotte. Sempre che il problema principale sia quello di spiegare e noi, eterni scettici, non crediamo effettivamente sia la questione più urgente. Quello che possiamo dire è che i politicanti, i gestionali, perfino molti tra i militanti più scaltri non se l’aspettavano – «la situazione ci è sfuggita di mano», dice candidamente uno di loro – ma le cose sono andate come da anni non ci stancavamo di ripetere, ovvero che l’accumulazione dei comportamenti di insubordinazione doveva rovesciarsi in un momento di attacco complessivo, che come tale ha la capacità di spostare tutti i termini della lotta politica in Italia. Chi riconoscesse qualcosa di familiare in queste parole non si sbaglia: se la sovversione è una scienza vuol dire che ha le sue regolarità. Ma anche, come dice il vecchio Kuhn, le sue rotture epistemologiche. La scienza della sovversione è la scienza di queste rotture principalmente ma se non ci fossero delle costanti, delle continuità sotterranee, si tratterebbe solo di caos.

La contraddizione più curiosa e, se vogliamo, rivelatrice nei “razionalizzatori” è da un lato nel dire «non è altro che un punto in continuità con quello che è già accaduto altrove» e dall’altro «non ce lo aspettavamo». Se alcuni di loro sono in buona fede, per altri si tratta di riportare a un ordine del discorso accettabile l’emersione di ciò che avevano timore che accadesse. Il 14 dicembre ha tra le sue virtù quella di aver finalmente rotto la credenza che ogni conflitto, ogni manifestazione e ogni corteo debba essere governato: se ne facciano una ragione o si tolgano dalle strade invece di continuare a delirare sulla “vera democrazia”.

Altra virtù è quella di far comprendere che è anche finito il tempo delle “azioni” fatte in pochi e contenti di esserlo. Anche qui a buon intenditor poche parole. Quello che tutti, ma proprio tutti, hanno dovuto riconoscere, nella rivolta romana come nelle altre sommosse europee, è che alle avanguardie, che ci sono sempre, si sono immediatamente unite migliaia di singolarità qualunque. Migliaia di singolarità che quando non partecipavano direttamente comunque tifavano rivolta, con buona pace di chi pensa che questo bel sentimento comune sia un disprezzabile «esercizio apologetico» e che invece adesso si tratterebbe di isolare l’evento, capitalizzarlo ed essere responsabili. Buttarla in politica cioè e ritornare a essere cittadini. Perché i moti insurrezionali della contemporaneità sono anche la figura in movimento dell’estraneità alla democrazia reale. È parte dello «sciopero infinito» nei confronti di ogni identità a partire da quella più socializzata e scontata di tutte, ovvero quella del triste cittadino planetario che non abita più nulla se non la sua alienazione dalla potenza.

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Esiste un modo e un sentimento dell’esistenza rivoluzionaria che diffida dei soggetti e delle ideologie come mezzi per leggere le situazioni; esso invece vive e vede il mondo come un insieme di linee che si incrociano e di piani che si intersecano, di masse di atomi che vengono a collisione e di esistenze che si incontrano. Ogni linea, ogni piano, ogni atomo, ogni esistenza è una potenza e ogni scontro è scontro tra potenze. Quello che viene detto il possibile è il prodotto estatico di questi incontri tra potenze, di queste collisioni fatali dalle quali prendono il loro corso eventi che sono tali proprio perchè non sono frutto del caos – solo degli ideologi del risentimento potrebbero pensarlo – ma dell’organizzazione che degli esseri dotati di determinazione gli hanno conferito a partire da quel momento e quello spazio nei quali l’incontro e poi la collisione sono avvenuti. Incontrarsi e comporsi, comporsi e aumentare la potenza, aumentare la potenza e scagliarla intera contro il nemico: cosa altro è organizzarsi?

Comunismo non è altro che il nome di questi incontri insurrezionali a partire dai quali si costruisce un mondo comune.

La calda scienza dell’insurrezione, la logica fredda della rivolta, la tagliente ragione rivoluzionaria sono fatte di questi incontri, di questi piani di vita che vengono a disegnarsi nell’esistenza comune come in un quadro di Malevich. L’intelligenza di una sommossa significa allora saper leggere le linee di conflitto che si vengono a incrociare e organizzare nel panorama tanto rutilante quanto squallido della metropoli. Guardie e giornalisti generalmente vedono in queste linee che diventano piano solo un ammasso informe, una folla senza pensiero, uno strumento manovrabile composto da una plebe acefala, delle vite infami. Per questi “analisti”, in genere, questa folla non è un soggetto e non è nemmeno composta da soggettività politiche. Questo è il lavoro della desoggettivazione nemica. Si veda cosa ha scritto il Corriere, ad esempio, il quale definisce tutti i partecipanti alla rivolta semplicemente come «macchina della violenza», contrapponendola in questo modo ai veri soggetti politici. Il problema di questi signori sarebbe infatti quello di evitare che la macchina divenga soggettività, o meglio ancora, lo dicono loro stessi, che divenga partito. Macchina da guerra/partito immaginario: è il loro incubo ricorrente.

I manager movimentisti non sono così lontani. Certo, sfumano i toni e cercano di vestire le linee e i piani con dei predicati che ne possano fare immediatamente dei soggetti da unire/inglobare nel loro maniacale sogno del Grande Soggetto alternativo alla crisi. Farne un buon soggetto da utilizzare come massa di manovra nella contrattazione con i prossimi governanti. All’indomani della rivolta di Roma abbiamo avuto abbondanti esempi di questi predicati: erano “ragazzini”, “precari”, “incazzati”, “studenti”, “una generazione”, “giovani”… “persone”(sic). Un eguale cecità, un’eguale ignoranza che agli uni fa dire che a scatenare la rivolta sono stati i “black bloc” e agli altri che è stata la passione irrazionale di “giovanissimi” disperati per il loro futuro. Come dire che da un lato e dall’altro vedono solo il nulla. Un nulla da dominare o a cui dar forma di Soggetto da dirigere. Chi sono allora i veri nichilisti?

Ciò che davvero hanno in comune questi due soggetti politici è una paura: non quella della violenza ma quella del vuoto. Vuoto politico s’intende. Un vuoto che si installa, separandoli, tra Palazzo e Piazza, tra Politica e Autonomia, tra Governo e Ingovernabile. Per questo appaiono tutti affannatti nel cercare di occupare l’abisso. Ma non c’è nessun vuoto. C’è solo la rottura di ogni possibilità di mediazione insieme all’apparizione folgorante dell’indistinzione tra fuori e dentro, pubblico e privato, guerra e pace che contraddistingue a ogni latitudine il governo dell’ordine imperiale. Per noi è evidente che si tratta di rendere irreversibile la rottura.

Quello che abbiamo visto il 14 dicembre è anche lo scontrarsi all’interno di ciascuno e ciascuna delle linee di soggettivazione con quelle di desoggettivazione ma per una volta lo scontro non dipendeva dall’essere catturati in un dispositivo astratto, quando lo subisci senza nemmeno sapere cosa e come, ma dall’essere avvolti in un sentimento comune. Perché è vero che c’erano studenti, ragazzi, artigiani, precari, operai ma è vero anche che nel percorrere quelle linee che si confondevano con le strade della capitale, tutti questi “soggetti” hanno sentito improvvisamente una profonda stanchezza per questa sociologia da rapporto Censis e si sono scoperti a provare odio non solo per la polizia e per i dispositivi di controllo disseminati sul percorso ma anche per se stessi in quanto dispositivi, per tutti questi impacchettati dentro delle gabbiette pavloviane per cui ad ogni soggetto, a ogni identità, corrisponde un comportamento standard. L’odio per i padroni e per i poteri non prescinde da quello per ciò che di tirannico portiamo addosso e dentro di noi. Per quella schifezza di produzione di soggettività postmoderna a cui tanti zombie della politica di movimento si appassionano tanto. Ad andare distrutto nel riot oltre al mobilio urbano è stata anche buona parte di quello che arreda questa gruccia concava chiamata soggetto a cui viene appesa la vita per poi riporla nell’armadio del futuro. Se un tempo valeva per gli operai il “rifiuto del lavoro” negli e contro gli stabilimenti industriali, oggi, che è la stessa soggettività metropolitana a costituire lo stabilimento e il prodotto del lavoro, la sovversione prende sempre più spesso la forma del rifiuto dell’Io e della metropoli: si sciopera contro le fabbriche dei soggetti così come si scioperava contro la fabbrica di automobili. Gli operai dovevano rifiutare se stessi in quanto forza-lavoro, distruggere la propria identità di classe operaia, per esprimere un livello di sovversione adeguato alla società industriale. Così oggi sabotare la soggettività flessibile in ogni sua declinazione – precario, immigrato, studente, terremotato etc – diviene un formidabile mezzo per attaccare il capitale. La rivolta fa paura perché mentre essa ha corso il governo non trova più tutti quegli attributi attraverso i quali può classificarti, frammentarti e ricomporti da qualche altra parte nel continuum metropolitano dello sfruttamento. Riappropriarsi della potenza coincide con questa diserzione dell’Io. Una politica del non-soggetto contro la metropoli.

Dicono che la “rabbia” sia esplosa una volta che la folla ha saputo della fiducia al governo. Ci permettiamo di dubitare di questa altra versione razionalizzante, tanto comoda alla politica e ai recuperatori di ogni sponda. E non si tratta solo di temporalità dissonanti. Ciò che è andato fuori sincrono sono proprio le misure e i tempi con i quali si è da troppo tempo abituati a circoscrivere i conflitti e a riassobirli nella governamentalità. Qualcosa si è rotto, la separazione è avvenuta. L’Ingovernabile è schizzato fuori dagli stretti interstizi che corrono tra un’identità politica e l’altra e si è fatto gesto collettivo. Adesso si tratta di allargare e abitare quegli interstizi e farli divenire delle Comuni, accoglienti e determinate.

Che un tamburo battesse feroce il tempo dell’insurrezione in Piazza del Popolo è certamente un segno dei tempi. Che il buon Tano D’Amico abbia riconosciuto in quella potente immagine di rivolta una fisionomia stranamente simile a quella dei moti parigini del 1848 non fa che darcene, benjaminamente, un’ulteriore conferma.