Nelle epoche di grandi conflitti è necessario prendere posizione; ciò non significa proporre un'alternativa all'esistente ma creare un piano di consistenza.
Certo sappiamo bene che maneggiare parole e concetti, per di più all'interno di flussi elettronici produce sempre la sensazione di avere a che fare con qualcosa di nemico. Sappiamo bene, quindi, di operare in territorio ostile: lo saccheggiamo con accuratezza e ferocia adeguata. D'altra parte non abbiamo scelta: in tutte le rivolte le armi si vanno a prendere lì dove sono. Si utilizzano i mezzi trovati lungo la strada come spazi in cui prendere partito o come luoghi dai quali prendere posizione per attaccare. Non spazi da occupare, come vuole la vulgata di “movimento”, ma da abitare o distruggere. Niente nel mezzo. Qui allora proveremo a raccontare ciò che accade o non accade in quegli spazi di tempo che l'abitudine storica chiama sciopero. Lo faremo da una posizione che non prevede un esterno e un interno ma che trova la sua potenza nell'essere diffusa, anonima e raggiungibile allo stesso tempo da chiunque.
È oramai una banalità. Tutti sanno che lo sciopero, fosse anche quello “generale”, non serve a nulla. Lo sciopero in quanto astensione dal lavoro dei salariati non cambia di una virgola i rapporti di forza. Quando la metropoli è fabbrica, quando la politica è divenuta spettacolo, quando la vita stessa è costantemente messa al lavoro, scioperare diventa necessariamente qualcosa di transitivo: non si sciopera dal lavoro, scioperiamo il lavoro. E allora scioperiamo la fatica, scioperiamo il sapere, scioperiamo la strada, scioperiamo tutto quello che tiene in funzione la megamacchina della produzione. In questo senso diciamo che uno dei gesti iniziali per la sovversione del presente è quello di profanare lo sciopero.
La tattica dei blocchi che negli ultimi anni ha egemonizzato le pratiche offensive dei movimenti viene dalla consapevolezza dell'insufficienza dello sciopero come strumento di lotta e dall'intuizione comune che solo l'interruzione dei flussi metropolitani potesse configurarsi come esercizio efficace di una negatività rispetto alla circolazione del capitale, ovvero alla circolazione del comando. I blocchi tentano così di scioperare i dispositivi che presiedono e controllano la circolazione di merci, di informazione e di soggettività che rendono lo spazio metropolitano tanto produttivo quanto invivibile. Lo sciopero della metropoli ha cominciato a mordere il reale. Ma non basta. Il governo del capitale impara dalle lotte e inizia ora a porre lui stesso dei blocchi, materiali e ideologici. La sua triste alternativa riformista continua a lavorare per la controinsurrezione proponendo nient'altro che mediazioni politiche.
Noi da parte nostra non possiamo che raccogliere queste indicazioni e ci pare che il 14 dicembre a Roma abbia segnato un passaggio: alla tattica dei blocchi va articolata la consapevolezza della necessità di alcuni punti di accumulazione di forza per lo scontro. La tattica si moltiplica e si estende: un continuum di sabotaggio, blocco, scontro, rifiuto dovrà concatenarsi in breve tempo se si vuole raggiungere un livello del rapporto di forza quantomeno “equilibrato”.
Dobbiamo cominciare a pensare che organizzarsi dentro la distruzione dei flussi nemici vuol dire anche organizzarsi dentro dei controflussi. Organizzarsi dentro lo sciopero della metropoli deve voler dire allo stesso tempo organizzarsi dentro una politica dell'abitare contro la metropoli e nell'espansione selvaggia di una amicizia politica. Questi sono gli aspetti di un comune che ci interessa oggi praticare per rendere irreversibile la discontinuità rappresentata dallo sciopero. Un'amicizia politica non serve affatto a costruire l'alternativa alla crisi o a unirsi contro di essa ma a costruire la possibilità di un'altrea forma di esistenza. Abitare un mondo non è allora altro dal distruggere allo stesso tempo quella parte di mondo che lo rende impossibile.
Se il partito dell'insurrezione non è la presa del potere né la gestione alternativa dei flussi ma la rottura degli argini, tutto ciò va pensato e posto come presupposto a ogni agire politico. I gesti di rivolta ricominciano sempre da capo senza per questo dover tornare indietro. Per quello che ci riguarda non si profana lo sciopero per il gusto della trasgressione, l'operazione è anzi volta alla restaurazione di una potenza. Sciopero umano, sciopero infinito, sciopero irreversibile sono per noi il balbettamento di una scansione possibile di questa potenza che destituisce ogni ordinamento e compatibilità, compresa quello dello sciopero stesso.
Un'ultima cosa: non c'è soggetto della profanazione dello sciopero, vi è invece un elemento che circola in esso e che sfugge costantemente a ogni relazione di potere proprio perchè ne è l'obiettivo inconfessabile. Il suo nome è plebe.
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