Posted: Maggio 13th, 2011 | Author: | Filed under: general, il mondo in sciopero | Commenti disabilitati su

… Ritorno a Rennes

La Casa dello Sciopero di Rennes, nata durante le lotte francesi dello scorso autunno e di cui abbiamo spesso trattato in questo spazio, è un’esperienza che mostra come almeno alcune delle cose che intendiamo col nome della nostra “ragione sociale”, ovvero lo sciopero irreversibile, possono essere messe in pratica. Ci interessa molto la sua ricerca sulle condizioni che rendono possibile vivere e bene ponendosi, per quanto possibile, al di fuori dei rapporti di produzione e di lavoro in cui tutti viviamo e male. Ci interessa altrettanto che il come di questa ricerca sia il più possibile gioioso e composto da una molteplicità di persone dalle storie e dalle attività molto diverse eppure accumunati dal desiderio di scioperare infinitamente il capitalismo e il suo mondo.

Al di là delle attuali difficoltà nelle quali si dibattono i suoi “abitanti”, non diverse da quelle che affliggono chiunque si sia posto da una eguale postazione di tiro, crediamo quindi sia interessante seguirne le evoluzioni ed è per questo che traduciamo uno degli ultimi suoi comunicati nel quale si annuncia la decisione di affittare un luogo per la Casa dello Sciopero. Nel frattempo essa vive nomadicamente per la città di Rennes portando in giro, con varie iniziative, l’idea e la pratica di uno sciopero che non finisce con la fine dello sciopero, quella di un legame nato durante la lotta che non solo si preoccupa di difendere le condizioni di lavoro del presente ma anche di elaborare, in teoria e in pratica, delle forme di produzione e redistribuzione non-capitalista e di come far durare l’”euforia” dello sciopero e dei blocchi oltre il termine di questi. In una parola la questione che pone la Casa dello Sciopero è semplice e decisiva: come uscire dal capitalismo a partire da ora?

 

L’appello dal sito https://maisondelagreve.boum.org/:

Se la Casa dello Sciopero è stata aperta lo si è fatto per dare un luogo all’AGI (Assemblea Generale Interprofessionale) che durante il movimento contro la riforma delle pensioni era il punto a partire dal quale si organizzavano una gran parte dei blocchi. L’AGI ha permesso ad alcuni salariati di differenti settori, a studenti, disoccupati e sindacalisti di riunirsi attorno alla comune volontà di costruire un rapporto di forza a partire dalla base. Si trattava in quel momento di incoraggiare il proseguimento degli scioperi e la determinazione degli scioperanti a paralizzare l’economia.

Dotarsi di un luogo si è imposto velocemente come una necessità per permettere a tutti di partecipare alla costituzione di una rete di socialità densa e dotata di mezzi materiali messi in comune, dove fosse possibile coordinare le iniziative di resistenza, le forme di solidarietà e i desideri di rottura con l’assegnazione di ognuno alla propria “ragione sociale”. La Casa dello Sciopero è stata anche un’esperienza di cooperazione e orizzontalità, in contrasto con la segmentazione e la delega del potere che prevale abitualmente nella società e a cui non sempre sfuggono anche i mondi militanti.

L’idea non è mai stata quella di costruire un rifugio ma, al contrario, di incontrarsi per dare corpo alle complicità tessute durante i picchetti, per densificarle e moltiplicarle.

Per far vivere questa verità: qualunque sia il luogo da dove cui si venga, il mestiere che si esercita o meno, il sindacato o il gruppo di amici al quale si appartiene, il desiderio di lottare insieme ci riunisce e trasforma in forza questa molteplicità di punti di partenza.

Questo autunno abbiamo iniziato a immaginare una nuova forma di sciopero. Uno sciopero che impari dove e come bloccare l’economia locale e i suoi flussi ma anche uno sciopero che sappia riappropriarsi dei luoghi, cucinare per cento persone grazie alle verdure dei contadini amici, atelier di meccanica per le biciclette, serigrafia, informatica, un servizio permanente di auto-difesa giuridica, casse di solidarietà, sostegno alle lotte locali, organizzazione di discussioni più puntuali di un seminario all’università, feste dionisiache… Uno sciopero che non sia più dipendente dalle direttive dei burocrati sindacali o alla temporalità corta e ritualizzata dei movimenti sociali, ma che disfacendo poco a poco la mobilitazione totale ( il lavoro perpetuo che ognuno deve fornire per “restare in corsa”) che ci impone il capitalismo per estendere il suo regno disastroso, allarga la nostra autonomia e lascia presentire altri mondi possibili. Uno sciopero che si faccia carico di tutte le condizioni d’esistenza e non solamente di quella del lavoro.

L’offensiva poliziesca che ha colpito la Casa dello Sciopero mirava a distruggere l’esperienza di lotta che si stava costruendo a Rennes e a recidere i legami che si stavano creando prima che essi divenissero indefettibili. Anche se l’operazione, portata avanti dal Comune, è riuscita a sgomberare la Casa dello Sciopero dai vecchi locali della CFDT (sindacato collaborazionista, ndt), non ha avuto gli effetti che voleva produrre. La Casa dello Sciopero non si riduceva a un luogo e non solo la solidarietà che si è espressa in seguito allo sgombero è andata al di là di ogni speranza ma molte delle sue attività si sono riorganizzate: redistribuzione alimentare e pranzi tutti i venerdì, laboratori di informatica, presenza nelle facoltà, discussioni collettive, processi di creazione di nuove sezioni sindacali di lotta, autodifesa dei disoccupati e dei precari di fronte alle istituzioni incaricate di controllarli…

Oggi, l’affitto di un luogo per una futura Casa dello Sciopero si è imposto come una necessità alla maggior parte di quelli che vogliono prolungare questa esperienza. Un luogo che permetta di sperimentare nella durata tutto ciò che si faceva alla Casa dello Sciopero e anche di più.

E’ uno dei paradossi dell’epoca il fatto che servano dei soldi per dotarsi dei mezzi per liberarsi del denaro.

Quello che è stato immaginato, per il momento, è che il finanziamento di questo affitto si faccia attraverso una molteplicità di donazioni mensili che possono partire da delle piccole somme (10 euro) a somme più considerevoli, in funzione dei desideri e delle possibilità di ognuno. Questo al fine di evitare che una sola o più risorse di denaro possano prendere un potere troppo ampio. E’ difficile per il momento immaginare esattamente la somma che serve riunire e se ci sarà bisogno di un contributo particolarmente conseguente all’inizio.

Per poter prevedere quello che è realmente possibile affittare, domandiamo a tutti quelli che vogliono sostenere la Casa dello Sciopero una promessa di dono mensile. Va da sé che questa promessa impegna solo la vostra parola, ma essa è altrettanto importante nella misura in cui determinerà le ricerche a venire.

Ovviamente, se per un caso fortunato, qualcuno avesse delle informazioni su di un luogo da affittare, da prestare o da donare per accogliere la Casa dello Sciopero, tutte le informazioni sono più che benvenute.


E il movimento nun-te-pago si fa prassi rivoluzionaria…

Posted: Aprile 26th, 2011 | Author: | Filed under: il mondo in sciopero, prassi | Commenti disabilitati su E il movimento nun-te-pago si fa prassi rivoluzionaria…

riceviamo e inoltriamo:

Atene – Attaccate stazioni della metro, danni per centinaia di migliaia di euro
Posted on aprile 25, 2011 by culmine

* occupiedlondon.org/blog

# cenere

Nella sera del 19 aprile, piccoli gruppi di anarchici sono entrati
nelle stazioni metro di Sygrou-Fix e Halandri, ad Atene. Come detto
dai media, hanno distrutto tutte le macchine di vendita e
obliterazione in entrambe le stazioni – i danni sono estimati in
“centinaia di migliaia, forse un milione di euro”, dicono i media.

Atene – Sull’esproprio di libri del 14 Aprile
Posted on aprile 25, 2011 by culmine

* actforfreedomnow.wordpress.com

# cenere

Giovedì 14 aprile c’è stato un esproprio di libri dalla grande
libreria “Protoporia” ad Atene, fatto da dozzine di compagni. Contro
lo sfruttamento dei padroni, il ricatto del mercato e del denaro,
abbiamo scelto di risolvere le nostre necessità in questo modo.
Durante l’azione sono stati lanciati volantini che dicevano:

“TUTTO CIO’ CHE VIENE RUBATO CI APPARTIENE”

“ESPROPRIO QUI E ORA DELLA SOCIETA’ DEL MERCATO”

“DISTRUGGERE L’ALIENAZIONE DELLE RAPPORTI DI MERCATO”

“CONTRO LE LORO CRISI CAPITALISTICHE, OCCUPAZIONI-ESPROPRI-CONFLITTI,
AZIONI INDIVIDUALI E COLLETTIVE”

 


Venite a Manduria a farvi aiutare

Posted: Aprile 4th, 2011 | Author: | Filed under: general | 1 Comment »

da un compagno del Mercato Occupato di Bari  in trasferta a Manduria Contrada Tripoli.

 

In questi giorni, in quei luoghi, stanno avvenendo dei fatti che meritano un’analisi approfondita . Partiamo dall’inizio, dai fatti. In Tunisia, migliaia di ragazzi decidono di sfuggire dalle ripercussioni del governo dopo la rivolta che ha causato la fine della dittatura di Ben Alì. Sbarcano nel porto più vicino del continente europeo, Lampedusa. Molti di loro (all’inizio cinquecento, poi altri duemila) vengono dirottati in un centro di identificazione creato per l’occasione tra Manduria ed Oria, costretti ad una permanenza forzata. Sono tutti di sesso maschile, con età compresa tra i venti e i quarant’anni. Il governo italiano, per bocca del suo Presidente del Consiglio, parla di rimpatrio immediato, parla di gente uscita dal carcere e quindi pericolosa, parla di sicurezza. Nel frattempo gli sbarchi aumentano, e mentre la “fortezza Europa” si chiude a riccio di fronte a tale emergenza, l’Italia si ritrova sola nella difficoltà di bloccare l’inedita ondata di migranti, progettando nuovi campi da costruire prevalentemente nel Mezzogiorno. Una premessa di questo tipo fa necessariamente saltare all’occhio tre elementi, cruciali. 1) I migranti in questione hanno alimentato il fuoco della rivolta che ha deposto la dittatura tunisina. 2) Alcuni di questi migranti sono stati in carcere, nel carcere di un paese in cui c’era e continua ad esserci una dittatura, evidentemente per motivi politici. 3) L’Europa, tramite il governo Italiano, esprime la volontà di rimpatriare i migranti in questione, ossia di riconsegnarli nelle mani dei loro aguzzini, il governo retto dall’esercito tunisino. Mi reco per la prima volta a Manduria, per visitare il campo, il 3 aprile. Mi aspettavo di vedere dei profughi. Ho visto dei rivoltosi. Il giorno prima sfondando un cancello hanno trasformato il centro in un luogo aperto, grazie a quel gesto possono ora entrare e uscire liberamente, muovendosi divertiti in una zona militarizzata all’inverosimile. I loro volti sono sorridenti, scherzano tra loro e con gli italiani, prendono per il culo le forze dell’ordine, inneggiano alla caduta di Ben Alì ogni due per tre, mettendoci in mezzo, spesso e volentieri, un vaffa pure per il nostro Berlusconi. Non chiedono acqua e viveri. Vogliono sigarette. In continuazione. Qualche giornalista, con aria afflitta, gli chiede cosa vedano nel loro futuro. Rispondono beffardi: “vediamo, se entro due giorni non ci danno sto permesso perdiamo la pazienza…”. Il permesso. Facciamo un passo indietro. Si tratta di un modulo che servirebbe ad ottenere la possibilità di circolare liberamente nel nostro paese, in attesa di essere riconosciuti rifugiati politici. La maggior parte di loro non sapeva dell’esistenza di questa possibilità, infatti appena messo piede a Manduria hanno subito pensato bene di scappare. E molti di loro evidentemente ce l’hanno fatta (con esiti tutti da verificare), come dimostra il numero non così eclatante di migranti oggi presenti nel centro. Ad un certo punto, però, dall’alto hanno deciso di impedire le fughe, la zona è stata militarizzata all’inverosimile, così pure le stazioni ferroviarie, gli episodi di violenza degli sbirri nei confronti di chi scappava diventavano sempre più frequenti. Così hanno cominciato a distribuire questi moduli, in numeri davvero ridotti (circa una ventina al giorno), che permettevano ai pochi fortunati che li ottenevano di lasciare il centro. Le forze dell’ordine, servendosi addirittura dell’aiuto di alcuni volontari, avevano in questo modo gioco facile nel convincere i detenuti a ritornare in carcere (meglio chiamare le cose per quello che sono), con la promessa di questo modulo che arrivava, si, ma sempre per meno persone. Nel frattempo i cancelli diventavano più alti, e aumentavano le pattuglie di polizia che presidiavano la zona. Nasceva un lager. Ed ecco svelato il paradosso di Manduria. Da una parte le forze dell’ordine, con i loro manganelli e le loro armi, i burocrati ed i partiti dell’ordine, con i loro moduli, i volontari (dell’ordine), con il loro melodrammatico assistenzialismo. Dall’altra questo gruppo di rivoltosi, semplicemente l’elemento umano più sovversivo che io abbia mai visto (e non è che frequenti gentlemen londinesi). I giornalisti, dicevamo, gli chiedono spesso del loro futuro, come per proiettarli in una sfera di realizzazione personale che in realtà è tutta nostra, tutta interna alla visione occidentale. Loro sono invece una presenza vera e viva nel presente, i loro occhi guardano qui ed ora, hanno la piena consapevolezza del loro essere nel mondo e nella storia, ed è una consapevolezza collettiva, non individuale. Vengono da una rivolta. Hanno fatto una rivolta. Queste parole possono sembrarvi enfatiche, vi basterà mezza giornata trascorsa con loro a Manduria per rendervene conto. Vi basterà osservare come questi ragazzi reagiscono nei confronti degli stranissimi personaggi (tutti italiani, ve lo garantisco) che si aggirano intorno al campo. Due, ad esempio, i più tipici: la ragazza in versione “madonna addolorata” che gira consegnando vestiti, e il vecchietto militante politico, che distribuisce volantini informativi. Ho visto con i miei occhi un ragazzo tunisino gettare appresso ad una ragazza italiana (ovviamente sempre scherzando) la busta degli indumenti usati dicendo: “tieni, vestiti, sono per te!”. Non si contano, invece, i volantini che ho calpestato perché giacevano strappati per terra. Molti italiani continuano ad aggirarsi per quei luoghi con la presunzione di aiutare qualcuno in difficoltà. Credo invece che dovremmo ben riflettere se non si tratti di un’ottima occasione per essere aiutati. Noi, storicamente popolo di frustrati e umiliati, che non conosciamo altra forma di approccio al prossimo se non sottoforma di clientela o carità, dovremmo osservare con molta attenzione quei ragazzi che oggi si trovano a Manduria, domani chissà dove. E farci aiutare, una volta per tutte, a costruire una rivoluzione. “Noi abbiamo cacciato Ben Alì, quando voi cacciare il suo amico Berlusconi?” (ragazzo tunisino, Manduria, 3 aprile 2011)


In cammino

Posted: Marzo 22nd, 2011 | Author: | Filed under: general, il mondo in sciopero, prassi | Commenti disabilitati su In cammino

 

Da http://setrouver.wordpress.com/

La sollevazione tunisina e le sue conseguenze hanno reso di nuovo concreta, palpabile, la questione dell’insurrezione. Sicuramente in Tunisia, in Egitto, in Marocco e in Libia, l’insurrezione non è mai stata così attuale. Ma il fatto che gli editorialisti vogliano circoscriverla al ” bacino mediterraneo”, non impedisce che essa coinvolga anche la Francia e tutto ciò che si delimita maldestramente come  Occidente.

Prendere seriamente un’insurrezione vuol dire, tra l’altro,  cercare di scoprire quello che ovunque risuona con essa. Ciò richiede di apprenderla politicamente: tanto affettivamente, che materialmente o tecnicamente. E’ uno degli obiettivi di questo blog. Vedere, descrivere, ciò che succede oggi in Libia, ieri in Tunisia, domani altrove. Riportare, condividere le parole, le immagini, le esperienze che ci toccano.
Noi non siamo dei giornalisti.

Come si organizza la sollevazione? Come si abita il vuoto di potere? Come si organizzano le solidarietà materiali? Come si mangia? Come ci si batte? Come ci si incontra? Quali sono le linee che dividono la reazione dall’insurrezione? E l’insurrezione stessa? Come lottano le donne? Come si sospendono e si mantengono i rapporti sociali preesistenti? Come si pensa, si dice e si vive l’insurrezione? Cosa ci insegna? Cosa annuncia?

« Un’insurrezione,  non sappiamo nemmeno come potrebbe cominciare. Sessant’ anni di pacificazione, di sospensione degli sconvolgimenti storici, sessant’anni di anestesia democratica e di gestione degli eventi hanno indebolito in noi una certa percezione schietta del reale, il senso partigiano della guerra in corso. Per cominciare, bisogna riconquistare questa percezione. »

Per il momento abbiamo scelto di trascrivere quasi tali e quali i racconti che ci fanno i nostri compagni presenti sul posto. Giorno dopo giorno e con tutto ciò che possono contenere a livello di aneddoti, di errori o di contraddizioni. Bisognerà, in un secondo tempo, riprendere, correggere, riorganizzare tutto questo materiale. Invitiamo tutti quelli che vogliono condividere ciò che vivono, da dove stanno lottando, a contattarci.


La nazione è la gabbia del popolo… contro il recupero borghese della storia, w l’insurrezione della plebe

Posted: Marzo 16th, 2011 | Author: | Filed under: general | Commenti disabilitati su La nazione è la gabbia del popolo… contro il recupero borghese della storia, w l’insurrezione della plebe

 

 

ecco la nostra idea di risorgimento…

“Il 12 gennaio Palermo si era sollevata contro i Borbone, il 24 febbraio a Parigi la folla aveva rovesciato la monarchia di Luigi Filippo e proclamato la repubblica, il 13 marzo la rivoluzione si era propagata a Vienna e il 15 la fiammata aveva raggiunto  Berlino e il 17 aveva acceso Venezia.

A Milano , in fondo alla grande pianura, gli effluvi dell’incendio erano giunti prima della notizia.

I giovani, frementi, si aggiravano per le strade assanguati come cani da punta. Fiutavano nell’aria i sentori acri delle fiamme. Annusavano il vento e si chiedevano “dov’è il fuoco, dov’è il fuoco?”.

Una lucidità ansiosa sbarrava gli occhi degli oppressi, una riga di sangue ne screziava l’iride. Da decenni non si faceva altro che tenere asciutte le polveri. Adesso, invece tutti attendevano la mano che le avrebbe incendiate . Nessuno voleva dormire.

La primavera dei popoli aveva ucciso il sonno.” Antonio Scurati , una storia romantica


Una rivoluzione quasi normale

Posted: Marzo 14th, 2011 | Author: | Filed under: general | Commenti disabilitati su Una rivoluzione quasi normale

Vittorio Sergi, Tunisi 11 marzo 2011

Da lunedì mattina la Kasbah di Tunisi è ritornata il centro simbolico del potere dello Stato. Era sempre stato così fino dai tempi del Bey, poi nel XX secolo gli invasori francesi vollero distruggere i simboli della legittimità araba e spostarono il centro del potere fuori dalla città vecchia.

Dopo l’indipendenza Habib Bourguiba, il padre e padrone della nazione lo riportò al suo posto ma tant’è il palazzo del governo di Tunisi venne costruito un po’ più in alto, ai margini di una piazza moderna che voleva simboleggiare il distacco dalle forme di potere tradizionali.

Nemmeno più una scritta, nel luogo in cui decine di migliaia di persone venerdì 25 febbraio chiedevano a gran voce “libertà, dignità e lavoro” oggi sono tornate le mercedes blindate e le guardie del corpo, cancellate le scritte e scomparsi i manifestanti. Si vedono ancora le bandiere rosse con la luna e la stella, ma sono in spalla a dei gioviali turisti, avanguardie di un businness che vuole ricominciare, un settore economico fondamentale per la Tunisia.

E’ stata coperta da un velo di vernice anche la scritta “Hanchi forever in our hearts” dedicata al giovane Mohammed, ucciso dalla polizia nei primi scontri di quel venerdì indimenticabile. E’ su un muro del palazzo del primo ministro, sotto i raggi del sole spunta fuori, nero sotto bianco.

Tanta fretta di coprire i segni della storia recente mostra in realtà come la Kasbah, in modo essenzialmente spontaneo sia stata la manifestazione fisica dell’esistenza di un potere popolare, di una forza costituente che si è manifestata con forza nelle giornate insurrezionali di dicembre e gennaio.

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E I GRECI GRIDANO: “NON TI PAGO!”

Posted: Marzo 7th, 2011 | Author: | Filed under: il mondo in sciopero, prassi | Commenti disabilitati su E I GRECI GRIDANO: “NON TI PAGO!”

"aooooooo ,, io nun te pago" il Bufalo

da: http://crisis.blogosfere.it/2011/03/e-i-greci-gridano-non-ti-pago.html
E I GRECI GRIDANO: “NON TI PAGO!”

In un’emulazione del grido di Eduardo De Filippo all’attonito Peppino, i greci hanno lanciato il movimento “Non ti pago!”.

Una rivolta del portafoglio che parte dalla disobbedienza civile, e sta diventando rivolta vera e propria. Le automobili passano ai caselli autostradali senza fermarsi a pagare il pedaggio, le biglietterie della metropolitana vengono sigillate da buste di plastica, persino i medici aiutano i pazienti a non pagare i ticket per le visite ambulatoriali. Tutto è partito da un’iniziativa di pendolari che hanno bloccato un casello dell’autostrada ad Atene, e ora l’aggratis generale si sta diffondendo per tutta la Grecia.

Gli attivisti dichiarano che i cittadini non hanno alcuna intenzione di pagare il prezzo della crisi causata dalla corruzione e dal malgoverno, e dopo i drammatici aumenti delle tasse e i tagli a stipendi e pensioni da qualche parte devono pur risparmiare. L’opposizione cavalca la protesta, mentre il governo accusa i responsabili di non accontentarsi di attuare una disobbedienza civile, ma di voler trascinare e costringere altri a fare altrettanto.

Il primo ministro Papandreu osserva sconsolato che i greci non si smentiscono mai, e che lungi dal rappresentare un’iniziativa rivoluzionaria, questa protesta non è che un’altra naturale conseguenza della diffusa cultura dell’illegalità, dell’evasione, della furberia che caratterizza il popolo greco.

Insomma, una faccia una razza.

altro articolo sullo stesso argomento: http://informarexresistere.fr/io-non-paghero-impazza-in-grecia.html

da: http://denplirono.wordpress.com/

pedaggio autostrada


Desert guerrilla. Su network, socialismi e insurrezioni.

Posted: Marzo 1st, 2011 | Author: | Filed under: foto, general, il mondo in sciopero, prassi | Commenti disabilitati su Desert guerrilla. Su network, socialismi e insurrezioni.

By Istituto Benjamenta

Scorrendo i commenti più o meno autorevoli sull’insurrezione in corso nei paesi del Maghreb, tra le reazioni maggiormente diffuse troviamo quella che consiste nello stupirsi positivamente del fatto che Internet e i vari apparati teconologici che vi sono connessi abbiano potuto svolgere un ruolo nelle sollevazioni in Tunisia e in Egitto. Noi ci stupiamo dello stupore, se ci passate il gioco di parole. E i gridolini di entusiasmo dei devoti del socialismo dei flussi capital-governamentali (libera traduzione dell’ideologia del social network) che scrivono su Il Manifesto o su La Repubblica ci appaiono volta a volta o stupidi oppure in malafede. Per non parlare del misto di crassa ignoranza e cattivissima fede di molti media che ambiscono a influenzare i “movimenti”.
Tutti sanno quali sono le origini della Rete. Essa non nasce in qualche recondito anfratto in cui si era rifugiata l’ultima comunità hippie-libertaria degli USA e nemmeno come mero strumento economico susseguente alla controrivoluzione neoliberale. Internet nasce nei laboratori dell’esercito americano come approntamento di una macchina da guerra adeguata ai flussi deterritorializzanti della globalizzazione rampante e ai campi di battaglia nomadici che si annunciavano con fragore alla fine del secondo millennio. La Rete, dunque, prima di ogni altra cosa nasce come un’arma che si installa pesantemente dentro quella che è corretto chiamare “guerra civile planetaria”, una macchina da guerra che permette di mantenere la comunicazione tra i combattenti anche quando le normali vie di comunicazione sono distrutte o impraticabili, non solo, essa si è sviluppata sempre più come parte dell’armamentario controinsurrezionale che fa leva sul dare o nascondere notizie, sul mostrare o no delle immagini, sull’intossicazione delle informazioni e così via. La hanno anche chiamata Netwar. E lo è rimasta ovviamente, una macchina da guerra, anche nei suoi sviluppi ulteriori e apparentemente difformi che si sono installati in quanto megafabbrica globale del capitale cosiddetto cognitivo. La produzione e il formattaggio delle soggettività permesso dai dispositivi cibernetici à la Facebook cosa altro può essere se non una strategia di guerra disposta contro ogni presenza ingovernabile?
In ogni caso, siccome rimaniamo ben convinti che l’economia sia una politica e che la politica sia la continuazione della guerra con altri mezzi, non ci meravigliamo affatto che in uno degli apici della crisi globale della governamentalità la macchina da guerra cibernetica sia stata appropriata, deviata e profanata dalle forze insurrezionali. Il fatto che Internet e le sue differenti modalità cibernetiche di disporsi dentro e sul mondo possano essere state utilizzate dagli insorti del Mediterraneo non ha nulla di stupefacente: da sempre i ribelli vanno a prendersi le armi là dove sono e dal saccheggio di una santabarbara piena di fucili a quello dei social network passa solo una differenza di grado. D’altra parte la stessa guerriglia irakena ne ha già fatto buon uso nel conflitto asimmetrico che la oppone alle forze imperiali. Il fatto invece che in Occidente i “movimenti sociali”, sino ad ora, non siano stati in grado quasi mai di utilizzare Internet se non come luogo di formazione di opinione pubblica ci parla più della loro scarsissima capacità di pensare strategicamente che di altro. Ci parla dell’impotenza dei movimenti sociali che si vogliono mantenere sempre al di qua dell’insurrezione. Purtroppo per i suoi miserabili tattici – e per la fortuna dei movimenti – siamo gia al di là
Se dunque vi è una prima lezione da prendere rispetto all’uso delle tecnologie informatiche da parte delle insurrezioni mediterranee, essa consiste in ciò: Internet e ogni dispositivo cibernetico non ha alcuna valenza intrinseca in termini “liberatori” , ne ha invece una pratica che è quella di essere un’arma del nemico momentaneamente espropriata dai ribelli.
La seconda lezione è semplicemente la conferma di una intuizione strategica già acquisita dalle lotte metropolitane degli ultimi anni: il conflitto morde se colpisce la governance capitalistico-cibernetica nella sua dinamica essenziale, ovvero sulla circolazione dei flussi. I flussi, bloccati o distrutti, siano essi consistenti in merci materiali o in informazione, sono del tutto equivalenti. Se il capitalismo tende a sopprimere o a diminuire il più possibile il tempo di produzione di un “oggetto” qualsiasi – che sia ad esempio la durata del gesto di un operaio in fabbrica o di una speculazione finanziaria o quella di una notizia “sensibile” – tramite l’iperaccelerazione del lavoro macchinico o della circolazione nei flussi, le rivolte efficaci sono quelle che riescono non solo a rallentare le macchine o bloccare i flussi, ma a imporre una vera temporalità alle cose e al mondo. Durata piena e abitata contro tempo omogeneo e vuoto, temporalità autonoma contro calendario cibernetico, tempo estatico contro presenza costante, sono tutte declinazioni dell’insurrezione al tempo del crollo della civiltà occidentale.
D’altra parte il blocco dei flussi in quelle terre non è cosa nuova: quando T.E. Lawrence ci narra della guerriglia degli arabi contro i turchi, all’inizio del ‘900, mette al centro esattamente la capacità vincente della guerriglia a colpire non le istituzioni in quanto tali bensì i suoi canali di comunicazione e rifornimento. La terza lezione è anch’essa implicita in ciascuno dei conflitti che hanno punteggiato gli ultimi dieci anni: se il governo ha come mezzo della sua riproducibilità la prevedibilità degli eventi, dunque la loro messa in sicurezza preventiva, ogni rottura nelle maglie degli strumenti con i quali esso provvede a questa opera di securizzazione (e Internet e i suoi derivati ne sono la spina dorsale) deve voler dire l’apertura di un possibile, di un aleatorio che sia incatturabile dagli apparati del governo almeno per un lasso di tempo sufficiente, e che anzi produca una specie di contro-panico, di una paura ritorta verso coloro che ne hanno fatto il principale instrumentum regni.
Non c’è nulla di più inpanicante per il potere che delle immagini di rivolta che improvvisamente fuoriescono dal recinto del prevedibile per divenire contagio. Nulla di più pericolosamente pauroso della potenza di risonanza dei gesti di insurrezione attraverso quei canali che normalmente sono destinati a neutralizzarli fin nella coscienza.

1.continua (forse…)


Da Tunisi: Ben Ali è scappato ma i suoi cani restano…

Posted: Febbraio 27th, 2011 | Author: | Filed under: general, il mondo in sciopero, prassi | Commenti disabilitati su Da Tunisi: Ben Ali è scappato ma i suoi cani restano…

La Tunisia è di nuovo in movimento, dopo la cacciata del presidente Ben Ali a furor di popolo il 14 gennaio, il processo di trasformazione sociale e politica che ha contagiato tutto il mondo arabo e oltre sta continuando con intensità. Infatti nello stesso tempo si susseguono le rivolte e in Egitto,Algeria,Marocco, Yemen, Barhein, Iran, Libano. Sull’altra sponda la Grecia continua ad essere scossa da una febbre antigovernativa inguaribile ed infine in Libia, la guerra civile in corso è allo stesso tempo una rivoluzione politica contro una dittatura corrotta e sanguinaria. Da qui tutto è cominciato e quella che è stata definita con malafede orientalista “la rivoluzione dei gelsomini” è in realtà un movimento destituente che lotta per diventare rivoluzione politica contro le tentazioni di un impossibile ritorno alla normalità. Dal 25 febbraio le piazze sono tornate a riempirsi e a chiedere le dimissioni del governo provvisorio del primo ministro di Ben Ali, Ghannouchi, vecchio uomo di regime, bandiera della reazione e del partito dell’ordine. A Tunisi da domenica 20 febbraio la Kasbah della medina, cuore storico e politico di Tunisi è nuovamente occupata. Lo stesso accade nelle altre città della Tunisia, dove le Medina, luoghi centrali delle città sono animate complessivamente da migliaia di persone che affermano di essere “ intenzionate a rimanere fino alla morte, se non si dimetteranno tutti i membri appartenenti all’ ancienne regime e la Tunisia sarà e rimarrà libera”. “Non un passo indietro” è ciò che afferma con forza con questa nuova forma di manifestazione il popolo tunisino. Piazza Tahrir è diventato un metodo, simile al modello del “planton” sudamericano ma con un dinamismo complesso. Ovunque si svolgono proteste e iniziative e di giorno in giorno si moltiplicano gli episodi di conflitto con l’odiata polizia del regime. Il 25 gennaio una nuova manifestazione ha riportato in piazza almeno 200.000 persone, un numero enorme per un piccolo paese come la Tunisia. Nel complesso in tutto il paese si è riversato in strada nuovamente un milione di persone. Nella strada tanti gridano “degage”, e lo accompagnano con un gesto eloquente del braccio, una nuova declinazione del “que se vayan todos” che abbiamo conosciuto durante la prima crisi profonda del modello neoliberale. Quando lo gridano tutti e tutte insieme sembra che un onda attraversi la piazza, le braccia in alto ondeggiano e sprigionano rabbia e gioia. Il ragionamento è semplice ed allo stesso tempo implica una presa di coscienza della difficoltà e della radicalità di un cambiamento rivoluzionario: il potere deve tornare alla base, al popolo. Non è un caso che siano i più giovani a gridare più forte, non hanno molto da perdere ma molto da guadagnare in un paese dove il 40% della popolazione vive con un euro al giorno. Prima il popolo ha riempito la piazza della Kasbah con rivoli di gente che la raggiungevano dai vicoli a piedi e dai viali della circonvallazione, poi migliaia di persone sono ridiscese, uscendo dalla città vecchia trasformate in fortezza dei ribelli, e si sono dirette sotto il palazzo del ministero degli interni, un palazzone grigio sede dei torturatori di Ben Ali. Almeno cinquemila persone hanno rimosso le transenne ed il filo spinato dell’esercito e hanno bloccato pacificamente il palazzo. C’erano ragazzi e ragazze seduti in terra a cantare, altri arrampicati sulle finestre, altri ancora arrampicati sui mezzi militari. Tutti chiedevano con forza le dimissioni immediate di Ghannouchi. Improvvisamente le prime raffiche di mitra in aria, le pietre in risposta, la rabbia e poi una tempesta di sassi e lacrimogeni seguita dai primi spari sulla folla per fare male. A sera c’erano già feriti per strada, barricate in fiamme attorno alla centrale Avenue Bourghiba. Solo a tarda notte ci arriva il bilancio più preciso dei feriti: tre per arma da fuoco, 30 feriti dalle squadre antisommossa ed un morto, un ragazzo di 17 anni di nome Mohammed Hanchi, colpito al collo da una fucilata. Tanto è forte il suono degli spari quanto è assordante il silenzio dei media ufficiali tunisini. Quelli italiani semplicemente brancolano nel buio che sa di malafede. In serata arriva una dichiarazione del presidente ad interim Ghannouchi che annuncia le elezioni previste per luglio ma non risolve il nodo centrale delle proteste, la esigenza di azzerare la classe dirigente legata alla dittatura. Sabato 26 è una giornata di rabbia, la notizia del ragazzo ucciso da un proiettile alla gola pervade la kasbah, l’altra notizia è che il corpo si trova nelle mani dei militari e l’attesa della famiglia diventa l’attesa di tutti. Immediatamente dalle piccole vie del suk centinaia di giovani reclamano il diritto a manifestare la propria rabbia e indignazione. I ragazzi escono dalla medina e appena si affaciano sul viale della città coloniale iniziano i lanci di lacrimogeni. Il riot si allarga a tutta la zona, il gas entra fin dentro la città vecchia, una pioggia di pietre si abbatte sulla polizia che non riesce a respingere i manifestanti. Nel primo pomeriggio un corteo determinato di piu di 5000 persone accompagna il corpo di Mohammed al cimitero. Ai piedi della kasbah la polizia continua ad aumentare di numero, un commissariato viene dato alle fiamme, sembra che tutta la plebe della kasbah sia in strada.

Da quel momento in avanti inizia la guerriglia…

Non si risparmiano colpi di mitra ,gas cs, bombe sonore contro ragazzi armati di pietre. Tra Rue de Palestine e Rue de Paris si organizzano barricate con ogni materiale a disposizione, ma la violenza della polizia non è destinata a fermarsi, tutto ciò che accade ai piedi della kasbah viene documentato dagli stessi manifestanti e immediatamente portato con una corsa disperata tra i vicoli della medina fino al centro di comunicazione che si trova all’ interno della parte occupata. L’interazione tra il reale ed il virtuale è trasparente in questa tenda. Le voci della strada arrivano sul web attraverso le mani di Fatima, giovane operaia della Telecom tunisina, velo sui capelli e una energia incrollabile. Escono verso il resto del mondo dalla bocca di Omar, faccione scuro e dottorato su Edward Said all’università. A questo livello l’intelligenza collettiva si manifesta come un nervo vivo di questa rivoluzione in corso. (http://www.facebook.com/setting.kassaba)

Per ore si organizzano cordoni e barricate per difendere la piazza centrale dove sono situate le tende e il palco della protesta. La prime informazioni confermate parlano di un bilancio di tre morti, mentre voci non confermate parlano di 15 morti. Il dato di fatto è riassunto nell’affermazione di un uomo del presidio che laconico afferma, “Ben Alì è scappato via, i suoi cani sono rimasti qua”.

http://www.youtube.com/watch?v=B6UoCXNkD6E&feature=player_embedded

Nella notte di sabato dopo la violenza della giornata una calma da coprifuoco si stende sulla città, mezzi militari presidiano le strade. Nel frattempo ci arrivano notizie dalle provincie che compongono un mosaico complicato di rivolte in corso anche a Sfax, Sousse, Kasserine ,Gafsa,…

Fare una rivoluzione senza leader e senza armi non è una cosa semplice, è da inventare, ma i tunisini e le tunisine ne vanno orgogliosi nonostante il dramma di queste giornate. La mancanza di centro si traduce in un caos apparente che però nei fatti si dimostra ancora una forza ed una intelligenza collettiva arricchita proprio dalla molteplicità delle forme di vita. Dal presidio e dalla base del sindacato UGTT viene lanciato un appello alla direzione generale dei trasporti di permettere l’utilizzo gratuito dei mezzi pubblici per permettere a quante più persone possibili di raggiungere Tunisi.

Da oggi i media tunisini hanno dichiarato lo sciopero generale,nessuno se ne era accorto che invece stavano lavorando per la Tunisia,…chissà che non ottengano la libertà di poter raccontare cosa sta facendo il suo popolo.

Da Tunisi:

Yara _ Vittorio _ Laura


Tempo Perso, noi non lavoreremo mai

Posted: Febbraio 21st, 2011 | Author: | Filed under: general | Commenti disabilitati su Tempo Perso, noi non lavoreremo mai

Tempo perso

Davanti alla porta dell’officina
l’operaio s’arresta di scatto
il bel tempo l’ha tirato per la giacca
e come egli si volta
e osserva il sole
tutto rosso tutto tondo
sorridente nel suo cielo di piombo e
strizza l’occhio
familiarmente
Su dimmi compagno Sole
forse non trovi
che è piuttosto una coglionata
offrire una simile giornata
a un padrone?

j prevert